CAPITOLO 1
Lucifer era nello stanzino sul retro del locale quando nello strip club si interruppe la musica. La curiosità di sbirciare all’esterno per controllare cosa stesse succedendo si dissipò quando sentì delle grida seguite dal suono di vetri rotti. Si ritrovò ad arretrare fino all’estremità buia della stanza.
Il suono di uno sparo gli strappò un gridolino e, quando una lattina vuota gli capitò sotto lo stivale, cadde su un cumulo di bottiglie. Il cuore gli si fermò, ma sperò che col baccano al di fuori, nessuno avesse notato il rumore.
«Venite qua, tutte quante!» strepitò una voce maschile, dopodiché nella stanza oltre il muro cadde il silenzio. «Vogliamo solo farvi qualche domanda. Nessuno si farà male».
«Merda, merda, merda» sussurrò Luci fra sé, sforzandosi di pensare a un modo per uscire da quella trappola. L’ultima cosa che voleva era trovarsi faccia a faccia con un branco di delinquenti armati. Non sarebbe finita bene. L’ultima volta che si era messo a discutere col proprietario del Vanilla Lounge, si era beccato un ceffone talmente forte che aveva portato il livido per due settimane. Fortunatamente era intervenuto Rick, ma stavolta non si trattava solo del boss. Luci dubitava che Rick e gli altri buttafuori potessero opporsi a questi uomini che avevano fatto irruzione e ora interrogavano le ragazze. Non era certo come sbattere fuori i clienti che si comportavano male.
La voce roboante proseguì: «Dov’è Suzy Sapphire? Non mi va a genio che mi si dicano bugie. Rispondi alla domanda, e potrai tornare al tuo lavoro».
Luci si raggomitolò nell’angolo dietro a uno scaffale zeppo di bottiglie di birra che tintinnavano, le narici piene di polvere. In che pasticcio era andata a cacciarsi Suz? Era un bel guaio. Un bel guaio del cazzo. Sapeva che la ragazza spacciava, era un modo per fare qualche soldino extra, ma ultimamente l’aveva vista sfoggiare dei nuovi tacchi coi brillanti incorporati e una borsetta abbinata. Che avesse fatto il passo più lungo della gamba? Un grido femminile lo strappò ai pensieri angosciosi.
«Non lo so, mi dispiace, l’ultima volta che l’ho vista era con Luci» strillò Linda.
Luci conosceva quel pianto, la ragazza era una specie di fontana, sempre a frignare. Bastava trovasse un cliente dall’aria un po’ matura e gli vomitava addosso tutti i suoi guai. Anche Luci aveva una vita di merda, ma perlomeno piangeva per i fatti suoi. Eseguiva i pompini per cui venivano i clienti e tirava dritto. Era raro che gli avventori del Vanilla Lounge pretendessero da lui qualcosa di più. Volevano il brivido dell’insolito. Visetto giovane – presente, lunghi capelli biondi – presenti. Aveva qualche habitué per cui faceva lap dance, ma quando esageravano poteva sempre chiamare Rick. Abbiamo un cazzo di buttafuori, Linda, non è come in strada, quindi perché cazzo piangi? Luci gemette fra sé, sentendola singhiozzare mentre riferiva che l’ultima volta lo aveva visto nei pressi del bancone.
Luci sentì rizzarsi i peli sul collo e si guardò intorno, in cerca di un angolino in cui infilarsi. Sull’ultimo ripiano della scaffalatura in metallo c’erano le bombole del gas, così colse l’occasione, incuneando il proprio corpo magro fra quelle e la parete. Finché la stanza era in penombra, aveva una minima speranza che nessuno lo notasse, per cui si rannicchiò a palla, cercando di farsi il più piccolo possibile. Non appena nascose il viso fra le ginocchia piegate, la porta si aprì, lasciando entrare un raggio di luce bianca sul pavimento, fin troppo vicino al suo nascondiglio. Il cuore gli batteva così forte che il cervello ribolliva per il sangue in eccesso.
La porta sbatté contro il muro, facendolo sussultare, ma il suono fu seguito da un altro ancora più sinistro. Passi lenti e calcolati furono accompagnati dal clangore del metallo – forse una catena – e nella testa di Luci esplosero visioni degli anelli freddi e spessi che gli stringevano la gola. Fu quando i suoni si interruppero a ridosso del suo nascondiglio che cominciò a sudare. Gli parve che tutta l’acqua del suo corpo venisse spremuta fuori per permettergli di farsi ancora più piccolo. Ma ormai il criminale l’aveva visto. Lo sapeva prima ancora che aprisse bocca.
«Avanti, ragazzina. Vieni fuori» disse una voce bassa, virile.
Luci osò finalmente scollare la fronte dalle ginocchia e sollevare gli occhi blu, rivolgendo al tipo lo sguardo più lacrimevole, triste e implorante che poté. «Ti prego, non farmi del male» sussurrò in tono acuto per non rivelare il proprio sesso.
Dalla posizione accucciata, con la luce dall’alto che gettava un bagliore ultraterreno, l’uomo sembrava enorme. Alto, robusto, con spalle forti e braccia spesse. Luci non lo vedeva bene in viso, ma i lineamenti parevano comunque nascosti da una barba cespugliosa e i lunghi capelli sospesi a mezz’aria gli formavano un alone scuro intorno al capo. «Basta che fai quello che ti dico».
«Va bene» disse Luci, e nel mentre afferrò una bottiglia dallo scaffale e gliela sbatté sullo stinco. Dovette infliggere qualche danno, nonostante gli stivali di cuoio, perché il criminale si chinò con un ululato di dolore. Sfruttando l’attimo di distrazione, Luci scivolò fra le gambe del mostro per arrivare alla porta. I leggins luccicosi erano l’ultima cosa che avrebbe voluto indossare durante la fuga, ma doveva arrangiarsi con quel che aveva.
Non appena riuscì a superare il gigante, si sentì tirare i capelli e, per un istante in cui trattenne il fiato, venne strattonato all’indietro fino a sbattere contro il muro. Il dolore gli esplose nella nuca mentre scivolava a terra, confuso dall’improvviso cambiamento della forza di gravità, ma l’uomo era su di lui, e gli afferrò di nuovo le lunghe ciocche. In quella situazione, la sua bionda fonte di orgoglio costituiva un discreto svantaggio.
«Che cosa ti avevo detto… ragazzino?» borbottò l’uomo, fermandosi un istante prima dell’ultima parola. Non sembrava così turbato dal sesso del suo prigioniero.
Luci si sollevò, ancora stordito per il colpo.
«Che cazzo succede qui dentro, Denti? Hai trovato la puttana?» gridò qualcuno dall’esterno.
«Lasciami andare, stronzo!» Luci afferrò il polso spaventosamente spesso per impedirgli di tirargli i capelli. Le dita si scontrarono col metallo e col cuoio che copriva la pelle umana, dopodiché venne trascinato in piedi per i capelli e tirato verso la porta senza troppe cerimonie, come la moglie di un cavernicolo.
«Sta’ zitto».
Luci non ebbe scelta che seguirlo, chinato, con i capelli che gli oscuravano il campo visivo. Doveva essere la peggior situazione in cui si fosse mai trovato da quella volta che aveva dovuto tirare fuori un coltello per difendersi da un tipo che voleva trascinarlo in un edificio abbandonato. Ah, le gioie di vivere per le strade di Detroit.
Si tirò su i leggins che continuavano a scivolargli sotto il sedere. Come previsto, nessuna delle ragazze proferì mezza parola. Ogni donna per sé, a quanto pareva. «Stai sprecando il tempo, razza di orso! Non so dove sia Suzy» gracchiò.
«Dov’è Lucy?» ringhiò il cavernicolo, scuotendogli la testa fino a farlo lacrimare.
Capì che non aveva speranza quando una delle traditrici – Linda, chi altri? – cominciò a strillare: «È lui! È lui quello che cercate! L’ha vista lui per ultimo».
La presa di Denti si allentò un poco quando Luci smise di dimenarsi, così poté raddrizzarsi per stare più comodo. Difficile mantenere la dignità quando indossavi un paio di leggins neri coi lustrini senza mutande sotto. Luci si scostò i capelli dal viso e sollevò lo sguardo sul bruto che lo tratteneva.
Era un pirata. Non di quelli che si vedono nei film di Hollywood, no – gli occhi verdi di quest’uomo erano talmente selvaggi che Luci lo immaginava dare fuoco alla sua stessa barba. Come Barbanera. O torturare la gente come si faceva una volta, spingendo i malcapitati lungo la passerella che dava sul mare aperto, e ridere come un cattivo dei cartoni mentre le vittime venivano ridotte a brandelli di carne, sangue e ossa. Un pirata di quel genere. Anche con la spessa barba e i capelli lunghi che gli addolcivano i lineamenti, gli apparve subito chiaro che aveva un viso da urlo, con zigomi alti, sopracciglia in rilievo e naso importante. Sarebbe stato un gran bel tipo se non fosse per il fatto che era un criminale pronto a sbudellarlo per ottenere informazioni.
«Lucifer, per favore» disse lui, e gli sputò dritto in faccia mentre altri uomini ridevano e trasalivano in sottofondo.
«Questo moccioso vuole morire» disse uno, ridacchiando.
«Forse ha ancora dei denti da latte che puoi cavargli» aggiunse un altro, seguito da un’ondata di risa. Luci li scrutò rapidamente, e si rese conto che dovevano essere una gang di motociclisti. Vestivano tutti i giubbotti smanicati che ricordava dall’infanzia, molti in pelle, e lo stile complessivo era quello che associava alla cultura dei centauri. In che affari si era immischiata Suzy? Erano questi gli uomini che le passavano la droga?
Il viso austero sopra il suo si irrigidì solo marginalmente quando la saliva gli colpì la guancia. Il motociclista si ripulì con un movimento lento della mano, le narici gonfie come ad accentuare la strana calma degli occhi verdi. Luci non sapeva cosa aspettarsi e, proprio mentre lo pensava, si ritrovò spinto contro un tavolino umido che puzzava del whisky da due soldi che vendevano al Vanilla. Riuscì a malapena a prendere fiato prima di sentire il motociclista sbuffare con fare derisorio.
«“Drive in”? Sul serio?» Lesse ad alta voce il tatuaggio che Luci aveva sul fondo della schiena. Era l’immagine di un cartello al neon in stile retrò, con tanto di automobile anni Cinquanta accanto.
Luci aggrottò la fronte, ben consapevole di essere sotto i riflettori. L’unico modo per combattere era non dare soddisfazione al bruto. «Ti interessa il mio culo?» I suoi poveri capelli erano ormai zuppi di alcol. Pregò che non gli dessero fuoco.
L’uomo rise, spingendolo più forte contro il tavolo. Luci vedeva ancora gli altri che sogghignavano, e gli sguardi terrorizzati delle ragazze. «Difficile non notare un tatuaggio così quando hai i pantaloni mezzo abbassati».
Luci gemette e si tirò su i leggins. Finalmente scorse Rick poco lontano. L’uomo era pallido, il che era comprensibile data la pistola puntata al collo, tuttavia scosse gentilmente la testa quando lo vide e gli fece “no” con le labbra.
Luci sentì altri passi pesanti alle sue spalle.
«Non è neanche sul retro, né al motel» disse un uomo, la rabbia che gli ribolliva nella voce. «Chi cazzo è questo coglioncello?»
Barbanera sospirò. «Questo coglioncello sa qualcosa, o almeno così dicono tutti».
«Tiralo su. Ci dirà tutto».
Col cavolo! Non poteva mettere Suzy ancora più nei guai. Era una delle persone più gentili di tutto il locale, a volte gli passava persino qualche spinello.
Seguì un altro strattone ai capelli, e Luci si ritrovò schiacciato contro il corpo sodo del motociclista, la sua pelle nuda che toccava la camicia e la cintura di cuoio dell’uomo, con una fibbia di metallo che al contatto con la spina dorsale lo fece rabbrividire.
Il pensiero di quei muscoli massicci contro di sé evaporò non appena guardò il viso che aveva di fronte. Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi vispi e curiosi, e le sopracciglia cespugliose in stile Jack Nicholson.
«P-papà?» balbettò, pietrificato. Non poteva essere vero. Il silenzio che seguì era così completo che Luci avrebbe potuto giurare di sentir crescere la barba del tipo alle sue spalle.
Suo padre spalancò gli occhi e lo esaminò da capo a piedi con la bocca aperta. «Lucifer?» disse alla fine, guardando i suoi uomini poco lontani, le spalle appena ricurve.
Luci deglutì. Per quanto fosse imbarazzante, avere lì suo padre poteva risparmiargli parecchie ossa rotte e dargli il tempo di scappare. E il lato positivo era che gli altri avevano smesso di ridere. «Ciao…» Luci sorrise coi denti che battevano. Nessun ricongiungimento strappalacrime. Le sopracciglia di suo padre si avvicinarono una all’altra, formando una valle profonda nel centro della fronte.
«Che cazzo hai addosso?»
«È…» Luci si schiarì la voce. «Sono gli abiti da lavoro».
Suo padre ringhiò e guardò oltre la sua spalla alla minaccia barbuta che lo tratteneva. «Denti, portalo via di qui. Non ho tempo di occuparmene ora. Trovagli qualcosa da mettersi e portalo al club. Qualsiasi cosa sappia, ce la dirà lì».
Il fruscio di capelli alle sue spalle doveva significare che Denti annuiva, il che fu confermato non appena Luci fu spinto in avanti, diretto alla porta. I motociclisti si scansarono per lasciarli passare, i volti una maschera di confusione. Nonostante i leggins, Luci si sentiva completamente nudo.
«E tienilo d’occhio, Denti. Gli piace darsela a gambe» ringhiò suo padre mentre uscivano nella fresca sera primaverile.
«Me n’ero accorto» rispose Denti, spingendolo bruscamente verso un gruppo di grosse moto, tutte sfavillanti sotto la luce della luna e quelle soffuse dello strip club.
Luci si mise le mani sui capezzoli che si inturgidivano e guardò Denti imbronciato. Erano tutte stronzate.
«Che stai facendo?» borbottò Denti, senza lasciargli andare i capelli. Era proprio una versione moderna dei cavernicoli.
«Non voglio che mi guardi i capezzoli». Luci gli fece il gesto del dito medio. Perlomeno adesso aveva un qualche potere. L’uomo non poteva più ucciderlo, visto che suo padre aveva ordinato il contrario.
Di nuovo quella risata roboante. Sembrava quasi venire da un barile di rum. «Ragazzino, ti do il mio giubbotto».
Luci aggrottò la fronte e lo guardò più attentamente. Gli doleva ancora la testa nel punto in cui si era schiantata al muro, e i capelli gli puzzavano di whisky. «Ho i miei vestiti al motel». Indicò l’edificio accanto. «Non ci crederai, ma di solito le porto le mutande». Un giubbotto caldo sembrava una bella idea, ma non voleva dare vantaggi a Denti. Non voleva essergli grato di nulla.
Denti scoccò un’occhiata all’edificio basso del motel. «In che stanza sei?»
«La sette». Luci sollevò le sopracciglia speranzoso. «Puoi lasciarmi andare i capelli».
Si ritrovò la bocca asciutta quando l’uomo prese un cellulare e compose un numero. Niente vestiti suoi. Sarebbe stato costretto a portare quel grosso giubbotto caldo e odoroso di uomo. E i leggins che lo facevano sembrare il gemello zoccola di Ke$ha.
Si guardò intorno nel parcheggio, ma con la mano che gli serrava i capelli, non poteva andare da nessuna parte. «Stronzo».
Denti lo ignorò e diede all’interlocutore istruzioni di andare a prendere i suoi vestiti. Sembravano più una serie di ordini che un favore, e Luci si trovò a controllare il davanti del giubbotto dell’uomo. Tutto fu chiaro quando vide la toppa da vice presidente. Denti non gli lasciò tempo per meditare. Prese una giacca stesa sulla moto e gliela passò. L’indumento era decisamente troppo grande per lui, ma era fatto di pelle morbida e probabilmente bastava appena a coprire il fisico massiccio di Denti.
«Mettitelo».
Luci gemette in segno di scontento, ma indossò la giacca e chiuse la cerniera per stare al caldo. Perlomeno, gli copriva anche parte del didietro. «Sei sempre così cavaliere?»
Denti lo guardò con quell’espressione perennemente torva che era assai più sexy del dovuto. Luci avrebbe voluto darsi un calcio negli stinchi. Invece osservò quel mostro di moto – immensa, tutta nera e cromata, con fiamme fantasma grigie disegnate sui lati, che portavano un affare che sembrava un dente stilizzato.
«No» disse infine Denti e lentamente gli lasciò andare i capelli. «E se cerchi di scappare, ti troverai con la faccia trascinata sull’asfalto, quindi ti conviene fare il bravo bambino».
Luci non poté impedirsi di strabuzzare gli occhi alla minaccia. Da come si comportava l’uomo, non sembravano parole a vuoto. «Ho diciannove anni. Non sono un bambino». E ora cosa gli sarebbe successo? C’era ancora un po’ di affetto paterno nel cuore di suo padre, o dopo le domande lo avrebbero sbattuto fuori – o peggio? Dopo tutto, suo padre era un satanista, gliel’aveva detto sua madre. Era per quello che l’aveva chiamato “Lucifer”. Oddio, e se suo padre avesse voluto saldare i conti? Sacrificarlo e annientare quel che restava della famiglia che aveva abbandonato?
Denti fece una faccia sorpresa e scoppiò a ridere, fissandolo con una mano sul sellino. «Bella questa, ragazzino» disse e salì sul bolide con un movimento preciso della gamba muscolosa.
Luci lo fulminò con lo sguardo, e nascose i pugni nelle maniche del giubbotto. «Sei così vecchio? Vuoi che ti chiami “signore”?» A dire la verità Denti non sembrava tanto vecchio. Faceva cagar sotto dalla paura, ma probabilmente non aveva molto più di trent’anni.
«No, voglio che sali e ti tieni forte» Denti gli lanciò un mezzo sorriso e guardò il posto dietro. Luci rimase di sasso. L’uomo aveva due denti d’oro subito dopo il canino.
Non gli sarebbe giunto alcun aiuto dal parcheggio vuoto, così dopo qualche secondo di cincischiamento, legarsi le scarpe e sistemarsi i leggins, Luci si arrese e sedette dietro al tipo col viso a pochi centimetri dal logo del club.
“Coffin Nails MC”. Mani di demone che sbucavano da dietro il coperchio di una tomba e la sigillavano con gli artigli. Nonostante l’immagine da brivido, Luci si strinse a lui così che il proprio pacco gli toccasse il culo. Se doveva viaggiare così, perlomeno poteva divertirsi un po’ a spese di Denti. Ma il motociclista non parve minimamente turbato. Quella testa di cazzo doveva essere molto sicuro della propria sessualità.
«Reggiti» disse Denti mentre il motore ruggiva.
Luci gli cinse con le mani il petto massiccio e gli appoggiò la guancia sui simboli sul retro del giubbino. Qualunque cosa stesse per succedere, non dipendeva da lui, perciò tanto valeva godersi il viaggio. Chiuse gli occhi e inspirò l’odore di Denti. Gli avrebbe fatto una lap dance senza problemi. E pure uno sconto.
Denti non disse niente e, dopo qualche secondo, la moto li condusse fuori dal parcheggio di fronte allo strip club e sulla strada deserta. Fin troppo presto, Luci cominciò a essere grato del giubbotto. Nonostante fosse primavera, l’aria che fendevano e che gli faceva volare i capelli al vento si stava lentamente raffreddando. Gli spiacque quasi per Denti, quando vide le sue braccia scoperte. Quasi.
Luci tenne gli occhi chiusi, ma la cosa lo rese solo più consapevole del grande corpo di fronte. Sorrise, visto che tanto l’uomo non l’avrebbe visto, e lentamente gli fece scivolare le mani sui pettorali pronunciati, esplorandoli attraverso il tessuto della maglietta. Li sentì flettere sotto il suo tocco.
«Dacci un taglio» fu l’unica reazione che ottenne mentre percorrevano la strada, superando una fila di prostitute che si erano raccolte intorno a un’auto che aveva appena accostato.
Luci non poté trattenere un ghigno e gli pizzicò un capezzolo. Forse poteva farlo incazzare e spingerlo a lasciarlo lì per strada?
Stavolta, Denti non disse niente. Svoltò in una strada scalcinata con una fila di garage su uno dei lati, e una sorta di vecchio parco sull’altro. Stava rallentando.
Luci gli infilò la mano nel pacco e colse l’opportunità (probabilmente l’ultima che avrebbe mai avuto) per palparlo. Ecco, così doveva essere un uccello. C’era parecchia sostanza dietro il denim, e Luci si ritrovò a sorridere al pensiero. Era un po’ che non faceva sesso in nessun modo perché era raro che lasciasse il Vanilla senza Rick. E al Vanilla, da quando Rick l’aveva preso sotto la sua ala protettiva, non c’erano scopate e pompini. L’uomo lo trattava come un fratello minore.
Denti si mosse sul sellino, ma il piacere di palpeggiarlo non durò a lungo. La moto si fermò sul ciglio della strada, e l’uomo si girò a guardarlo con un’espressione indecifrabile. «Scendiamo».
Luci non poté mascherare il ghigno idiota che gli sbocciò sul viso. «Davvero? Vuoi farmi un pompino o preferisci un lavoretto di mano?» Cercò di riordinarsi in qualche modo i capelli per apparire più seducente. Stava giocando col fuoco, ma non era mai stato bravo a tenere a freno la lingua. Non erano nemmeno vicino al perimetro del club, perciò Denti doveva avere altri piani.
Sentì il sangue scaldarsi quando l’uomo scese dalla moto e gli lanciò un sorriso. Gli stava troppo vicino, facendogli arrivare tutto quell’aroma muschiato e virile. Quando erano così attaccati, Luci poteva giusto guardargli il petto.
Che avesse trovato l’albero della cuccagna? Un motociclista curioso pronto a lasciarlo libero in cambio di un pompino? Bingo. O magari a Denti piacevano i biondi. Era parecchio insolito farlo in strada, anche se questa era deserta. Luci sollevò lo sguardo negli occhi verdi con un sorriso e gli allentò la cinghia di pelle spessa.
Denti inspirò a fondo, guardandolo dritto negli occhi da dietro la barba che pareva più attraente ogni secondo che passava. «Levala del tutto» disse con voce bassa.
Luci si leccò il labbro superiore al pensiero di un bel pompino e lentamente gli sfilò la cintura dai passanti. Aveva la pelle d’oca e non c’entrava il freddo. «Puoi dire a mio padre che mi hai interrogato tu, ma non ti ho detto niente di utile» suggerì.
«Adesso vuoi trattare?» chiese Denti, sfilandogli dolcemente la cintura dalle mani. Fece un altro passo in avanti, e i loro petti quasi si sfiorarono, al che Luci sentì divampare un fuoco possente nella pancia.
«Oh, suvvia, sarà felice di non avermi più fra le scatole. Hai visto anche tu com’era in imbarazzo. Tirerà un sospiro di sollievo, accenderà una candela nera o qualche stronzata del genere, e io nel frattempo sarò già lontano». Sottolineò l’idea aprendogli il bottone dei jeans.
Denti sbuffò e lo afferrò per il davanti del giubbotto, solo per rigirarlo all’improvviso e sbatterlo, piegato, sul sellino. «Cosa stai combinando della tua vita, ragazzino?» ringhiò, spingendogli la schiena così che Luci si ritrovò faccia a faccia con la parte puzzolente del bolide, scioccato al pensiero che i capelli sfiorassero quasi il grasso.
Non era quello che voleva. Cercò di divincolarsi dalla presa ma era inutile, quelle mani erano più solide di lastre di metallo. Abituate a stringere una pistola, gli suggerì l’immaginazione. Grazie, immaginazione. «Oh, andiamo, pensavo avessimo un accordo». Il respiro gli si mozzò, rivelando la paura.
«Non faccio accordi coi mocciosetti» rispose Denti, e Luci avrebbe potuto giurare di sentirlo muoversi. Prima che potesse pensare a un modo per usare la cosa a suo vantaggio, ci fu un sibilo a mezz’aria, e Luci si piegò ancora di più intorno al sellino allo shock del dolore che gli si diffondeva per le natiche.
Gridò con gli occhi spalancati e mosse i fianchi nel tentativo di liberarsi. «No!» Riuscì appena a sollevarsi per dare a Denti un colpo sul braccio. Fu talmente patetico che borbottò scontento, specialmente quando la cintura tornò a lambirlo con più forza. Ed era la stessa cintura che Luci gli aveva porto, consegnando a Denti lo strumento della propria sofferenza.
«Ti ho chiesto di toccarmi?» chiese Denti freddamente.
«Sì!» sibilò Luci, trattenendo a malapena le lacrime, il sedere che pulsava di calore dopo il colpo. «Mi hai detto di reggermi a te. È quello che facevo!»
«Non è quello che facevi» disse Denti, e un’altra cinghiata lo fece contorcere senza fiato. Luci si sentiva il culo contratto per la forza del colpo.
Lacrime calde gli colarono sulle guance, le gocce salate che presto raggiungevano le labbra. Non faceva male quanto il colpo di prima alla testa, ma il dolore diverso lo faceva lacrimare come se fosse un’arancia che Denti stesse spremendo. «Era solo uno scherzo! Smettila, o lo dico a mio padre!» Cercò di tirargli un calcio, ma mancò il bersaglio.
Il colpo successivo lo spinse ad abbracciare la moto in un vano tentativo di nascondersi, e la risata di Denti rese tutto più umiliante. «Davvero vuoi dire a tuo padre che ti ho sculacciato come un bambinetto?»
Luci aveva le labbra che tremavano contro la sua volontà. Certo che no. Il vecchio probabilmente gli avrebbe riso in faccia come Denti. «No» disse con un singhiozzo tenue. L’intero corpo si irrigidì in previsione del sibilo successivo. Nemmeno sua mamma l’aveva mai punito così.
Ma il colpo non arrivò. «Hai imparato la lezione? Non si scherza con me» disse Denti nello stesso tono di prima.
Luci tirò su col naso e si strofinò la faccia. Non avrebbe più rivolto la parola a quello stronzo. Non si abbassava a quel livello. Su gambe malferme, si raddrizzò non appena la mano si spostò dalla sua schiena. Gli sembrava di avere il culo ridotto a carne macinata, pulsante di calore e dolore. Curvò le spalle e si mise le mani nelle tasche del giubbotto. C’era un accendino, ma nient’altro.
«Chiedimi scusa» disse Denti, il viso espressivo quanto una parete bianca.
«Volevo solo dire ciao al tuo pisello, tutto qui». Maledetti occhi che non la smettevano di riempirsi di lacrime. Luci fece un passo indietro, ma in cuor suo sapeva che mettersi a correre non era un’opzione valida in una strada interrotta.
Denti non si spostò e lentamente tornò a sollevare la cintura ora arrotolata. «Chiedi scusa. Non te lo chiederò una terza volta».
Luci sollevò lo sguardo, sicuro che gli occhi bagnati non avrebbero avuto effetto su quel cuore gelido. «Scusa» borbottò e si scostò i capelli. Moriva dalla voglia di lavarli.
«Scuse accettate». Denti annuì e con noncuranza si rimise la cintura nei passanti dei jeans. Chiuse rapidamente la fibbia e indicò la motocicletta. «Andiamo».
Luci aveva ancora il cuore che batteva a mille quando salì sul posto di dietro e si aggrappò alla barra di metallo posteriore. Doveva trovare un modo per uscire da quella situazione. Forse non era un gran pianificatore, ma nemmeno gli piaceva vivere nel caos.
Accelerarono per le strade, ma visto che Denti faceva il possibile per evitare le arterie principali della città, non rimasero bloccati da nessuna parte, e presto Luci si rese conto che erano diretti alla zona dove sorgeva la sua vecchia abitazione. Negli anni passati lontano da casa, aveva evitato l’area a tutti i costi, ma ora eccolo lì, condannato come un pacco rispedito al mittente. Di fronte, Denti era una presenza minacciosa, e il fatto di essere soli non pareva più un’occasione per negoziare. Il suo didietro ne era la prova.
Parvero passare secoli prima che arrivassero all’orrendo edificio. Denti lo superò e girò intorno al perimetro per raggiungere un cancello posteriore. Un giovane arrivò di corsa e digitò un codice per aprirlo. Mentre passavano, Luci sentì un fischio ammirato. Non ne avrebbe più sentiti una volta si fosse tolto il giubbotto e avesse rivelato che non aveva le tette. Si sentiva una piccola mosca, condotta dal ragno al centro della ragnatela.
Denti fermò la moto di fronte all’ingresso e scese, salutando brevemente il tipo che li aveva fatti entrare. «Andiamo» disse a Luci, indicando le porte mezze aperte. Dopo il viaggio, i capelli erano ancora più crespi di prima.
Luci osservò l’alto cancello che si chiudeva alle loro spalle. Ne sarebbe uscito vivo? «Cos’è che volete da Suzy?» Scese e si mise le mani nelle tasche del giubbotto.
«Non vogliamo farle del male» rispose Denti dopo un attimo di esitazione, «ma ha smesso di rispondere alle chiamate, e ci deve dei soldi. Credimi, prima la troviamo, meglio è per lei». Spinse Luci verso la porta. Alla luce del lampione, Luci vide un bancone e due poltrone di pelle scalcinate.
Tirò uno schiaffo alla mano di Denti. «Vado da solo. Che diavolo». Si guardò intorno in cerca di possibili via di fuga, ma non c’erano finestre. «Se ti dico quello che so, mi lascerai andare?» chiese, ma gli scappò un sorriso alla vista del gattone bianco a pelo lungo che sedeva sul bancone vuoto. Il sorriso svanì di fronte al rifiuto di Denti.
«No. Tuo padre vuole parlarti» disse l’uomo, trascinandolo verso la sala più interna. Era una stanza semplice, con piastrelle sul rosso al pavimento e pareti di legno. Uno striscione col simbolo del club occupava buona parte di uno dei muri, circondato da foto incorniciate dei membri ufficiali della sezione di Detroit dei Coffin Nails. Lo spazio era diviso in un’area soggiorno con un televisore e diverse sedie, e il bar con una serie di bicchieri e svariate bottiglie di liquori sugli scaffali dietro.
«Ah, sì? Non si è disturbato per diciannove anni, e adesso all’improvviso vuole parlare?» sbottò Luci.
«Chi c’è con te, Denti?» chiese una voce di donna da dietro un divano in fondo, ma erano diretti nella direzione opposta e Luci non poté vedere chi fosse.
Denti gli strinse più forte la spalla e lo spinse lungo il corridoio. «Un informatore».
«Dove andiamo?» mugolò Luci mentre Denti lo conduceva lungo un corridoio adornato da ancora più foto del club. «Devo passare la notte qui?»
Denti gli lanciò l’occhiata di chi è stanco delle chiacchiere. «Devi restare finché non lo dice Prete» disse mentre cominciavano a salire le scale. Il secondo piano parve disadorno ma pulito, con la moquette scura a terra e le pareti bianche.
«Ma ho delle cose mie da fare. E i capelli sono un disastro. Non posso restare in questo stato». Per non parlare dei lividi che probabilmente gli sbocciavano sulla pelle. Nessuno avrebbe voluto farsi fare una lap dance da un tizio col culo pieno di segni rossi.
«Ci vorrà un po’ prima che tornino. Puoi lavarti i capelli» disse Denti, aprendo la porta della seconda stanza sulla sinistra. Quando si accesero le luci, il ragazzo vide una camera da letto spaziosa, perfettamente in ordine, e con ben poche carabattole. Le pareti erano grigie, con poster delle band incorniciati, e l’intera stanza trasudava un’atmosfera di calma. Era un luogo in cui rilassarsi, con un lettone matrimoniale, una tv a schermo piatto, una serie di libri e dvd in mostra su due scaffali dal design minimalista.
«Niente cella?» Luci si guardò intorno e aprì la cerniera del giubbotto. Oltre una porta mezza aperta si intravedeva un bagno bianco pulito.
Denti fece un verso ironico, come se Luci gli avesse ricordato qualche battuta macabra. Con un uomo del genere, Luci non se ne sarebbe stupito. «No, è camera mia».
«Oh, ho capito, mi hai portato nel tuo nido d’amore». Luci si lasciò cadere sul letto dalla trapunta morbida. Non voleva che il tizio pensasse di averlo messo ko con quella cinturona. Il materasso era un po’ duro, ma non gli fece troppo male al culo martoriato.
Denti inarcò le sopracciglia e chiuse la porta. «Non proprio» disse e si sfilò gli stivali.
Luci si mise a pancia in giù e osservò il motociclista dall’aria da duro. «Che cosa fate se non vi dico niente?»
Denti si appoggiò al muro e scosse la testa. «Lo sai perché mi chiamano “Denti”? Sta per “Fatina dei denti”. Mi piace giocare al dentista» dichiarò con una quiete sinistra.
Luci deglutì la prima battutaccia che gli era venuta in mente. L’atmosfera si fece tesa, e non era il brivido piacevole di quando flirtava con qualcuno. «Oh. Sul serio?» sussurrò infine e sedette sul letto. Lo sguardo si spostò sul ciondolo al collo dell’uomo, e all’improvviso, la giacca fragrante di pelle gli parve troppo calda e soffocante. Il ciondolo era a forma di teschio, ma in qualche modo si capiva che era ricavato da un dente.
Denti annuì lentamente.
A Luci venne la pelle d’oca. Si tolse il giubbotto e lo ripose ripiegato da parte prima di procedere a levarsi gli anfibi. «Mi lavo i capelli» borbottò.
«Bene». Denti si avvicinò per tenerlo d’occhio. «Spogliati».
Luci si fece immobile, cercando di capire l’ondata di eccitazione che quelle ultime due parole gli avevano suscitato nel corpo. Ma con tutte le minacce, l’ultima cosa che voleva era farsi venire un’erezione di fronte a lui. Si tolse gli anfibi e le calze, tutto il tempo combattendo il calore che gli saliva nel petto. Okay, forse Denti aveva un look da pirata, ma con i capelli incolti e la barba, le braccia massicce e lo smanicato in pelle, sembrava più un Barbanera versione sexy che un clochard cencioso.
Luci deglutì e si sfilò i leggins, sentendosi sotto osservazione. Percepiva gli occhi verdi che gli scivolavano sulla pelle, ma non voleva tentare di coprirsi, dandogli la soddisfazione di saperlo a disagio.
«Usa quello che ti serve. Ti prendo un asciugamano pulito» disse Denti, facendo capolino in bagno. I prodotti disponibili erano ben pochi, e Luci sapeva già che sarebbe stata una pulizia molto basica, visto che non vedeva nemmeno un balsamo nella mensolina accanto alla vasca.
Rise nervosamente e cominciò a intrecciarsi i capelli mentre si avvicinava piano alla porta. «Che gentiluomo». Torse la schiena per guardarsi i lividi sul didietro. Si stavano già tingendo di un violaceo chiaro. «Il colore si intona ai miei occhi». Provò a scherzare per dissipare la tensione, ma gli occhi di Denti si fecero ancora più sinistri, più scuri. Dopodiché, l’uomo gli fece una domanda perfettamente normale.
«Ti hanno eletto re del ballo scolastico?» Guardava il tatuaggio sul suo fianco, l’immagine di una corona e la scritta “Re del ballo” subito sotto.
Luci entrò in bagno, scoprendolo più ampio di quel che sembrava dall’esterno. La vasca poteva comodamente ospitare due persone. Non che Denti avrebbe apprezzato un tale invito.
«Sì, come no» disse e si chinò sulla vasca per aprire l’acqua. Lanciò un’occhiata alla finestra laterale. Il vetro era opaco e non era molto ampia, ma Luci suppose di potercisi arrampicare se necessario.
«Entra dentro» disse Denti, e all’improvviso Luci sentì del tessuto sfiorargli una natica.
Gli venne la pelle d’oca sulle braccia, e trasalì lievemente. «Non mi credi?» Rise e girò la testa, trovando Denti che torreggiava su di lui come l’uomo più sexy a cui avesse mai fatto un pompino. Certo che aveva presenza, Luci doveva ammetterlo.
«Non sembri il tipo, tutto qui».
«È facile vincere quando sei l’unico partecipante». Luci mise un piede oltre la vasca per controllare la temperatura dell’acqua. «Era un ballo privato, riservato ai vip». O per meglio dire un ballo inesistente, visto che aveva lasciato la scuola a quindici anni. Si era fatto fare il tatuaggio per commemorare l’evento.
Denti sbuffò ironico. «Nel senso che hai fatto un pompino al vero re?»
Luci schiuse le labbra, ma fu rapido a ricomporsi e ad aggrapparsi al suo braccio mentre entrava nella vasca. «Magari. L’ho visto negli spogliatoi, una volta. Aveva questo cazzo spesso, venato. Dio, quanto mi sarebbe piaciuto dargli una bella succhiata» disse, sperando di mettere Denti almeno un po’ a disagio, ma non parve funzionare.
L’uomo curvò le labbra in un sorriso sghembo, che si fece meno strano quando gli afferrò una mano e gli schiaffò una manetta sul polso. Il metallo freddo gli fece prendere consapevolezza, uccidendo le fantasie di lui che scappava dalla finestra – specialmente visto che Denti nel frattempo aveva agganciato l’altra manetta alla tubatura.
Luci sospirò rumorosamente e si costrinse a scoccargli un sorriso falso. «Oh, andiamo, ti pare che scapperei da uno come te?» Gli sfiorò la cintura con le dita e gli rivolse uno sguardo innocente.
«Piantala» disse Denti, e lentamente si riavvicinò alla porta, pur tenendo gli occhi puntati su di lui.
«Ti piace guardare?» chiese Luci con aria imbronciata e si tuffò nell’acqua. Non c’erano neanche le bolle. Perlomeno la manetta aveva la catena lunga, così poteva in qualche modo lavarsi i capelli.
Un sorrisetto illuminò il viso di Denti, e l’uomo uscì. Pochi istanti dopo, l’altra porta si aprì e poi si richiuse. Luci era solo.
Lanciò un’occhiata allo shampoo due in uno e sospirò. Ci voleva ben altro per i suoi lunghi capelli biondi. Se avesse dovuto fermarsi più giorni, avrebbe preteso un trattamento adeguato, perché questo era del tutto inaccettabile. Forse se avesse convinto Denti a portarlo a fare shopping al centro commerciale, avrebbe potuto approfittare del caos per telare. Comportarsi da bravo bambino e svanire appena Denti abbassava la guardia.
Doveva anche avvisare Rick e dirgli che era al sicuro; probabile che l’uomo fosse non poco in pensiero. Gli portava sempre cose buone da mangiare e si accertava che restasse in salute. Gli aveva persino comprato dei farmaci quando Luci non poteva permetterseli.
E poi c’era la faccenda di Suzy. D’accordo, era una spacciatrice, ma non era da lei giocare un tiro barbino del genere. Non era così stupida da rubare soldi ai Coffin Nails. Forse le era davvero capitato qualcosa? In fondo non gli aveva confidato niente di segreto. Lui e Suzy erano andati insieme a una festa, e se lui era tornato al Vanilla per il turno, a quanto pareva lei no. Mentre si insaponava il povero culetto contuso, Luci decise di confessare a Denti e a suo padre quel che sapeva di lei, a patto che promettessero di sentire anche la sua versione della storia, una volta l’avessero trovata. In fin dei conti, se era stata davvero così idiota da rubare ai Nails, doveva avere una buona ragione. Eppure, nonostante i guai in cui era capitato, Luci sperava che suo padre non lo odiasse in tutto e per tutto.
Prese lo shampoo e cominciò a lavarsi i capelli incurante della manetta. Odiava tenerli tanto sporchi. La mente vagò al ricordo di Denti che lo sbatteva sul tavolo appiccicoso. Allora aveva una gran paura di cosa sarebbe capitato, ma ora, nella relativa sicurezza di una vasca da bagno linda, l’immaginazione scivolò negli anfratti più bui e indecenti della sua mente, dove il motociclista lo scopava con forza sotto gli occhi di tutti. Gli avrebbe abbassato i leggins paillettati, avrebbe usato la saliva come lubrificante, e ci avrebbe dato dentro, afferrandogli i capelli. Persino il ricordo della cintura si confondeva in qualcosa che poteva essere piacevole nelle circostanze giuste.
Luci sprofondò sotto l’acqua e si abbandonò alla fantasia.